martedì 6 settembre 2011

Sketches of Venice 2011

Alcuni appunti a margine della sessantottesima Mostra del cinema di Venezia.

Per cominciare, il nuovo Palazzo del Cinema, in occasione del centocinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia, si presenta come una gigantesca fossa abbandonata. Le recinzioni, rispetto all'anno scorso, sono meno ermetiche. Il pubblico può così apprezzare l'avanzamento dei lavori: sul fondo del baratro sono stati stesi dei lunghi teli di plastica bianca.



In assenza del nuovo Palazzo, la sala più capiente del prestigioso festival internazionale rimane un tendone gonfiato sopra la superficie di un campo da rugby. In compenso, la storica Sala Grande è stata completamente rinnovata in maniera "ottimale per la cinematografia d'oggi", ovvero con poltrone più scomode e strette. Alcune porte sono state rivestite in finto legno.

Per quanto riguarda la sigla di apertura, possiamo notare che è la stessa fin dalla sessantacinquesima edizione. Perché cambiarla, se fa così tanto effetto? È ormai assodato che a ogni proiezione di questa gemma i fratelli Lumière si rivoltano nella tomba. Ideata e diretta da Ermanno Olmi.


E ora qualcosa di completamente diverso: i film, nell'ordine, del tutto irrilevante, in cui li ho visti.



Secondo Variety l'industria cinematografica italiana se la passa piuttosto bene; pare che i film italiani valgano il quaranta percento del mercato nazionale. Eppure il cinema nostrano continua a infliggermi alcune tra le esperienze visive più dolorose. Un primo esempio è Di là dal vetro di Andrea Di Bari, il corto scritto e interpretato da Erri De Luca. Mi dispiace, Erri: non è un film. Anzi, è il peggior corto che ho visto quest'anno.

Sesso e immigrazione sembrano i temi che vanno per la maggiore. Si comincia con Love and Bruises: vicissitudini sessuali di una studentessa cinese in Francia. Il titolo di lavorazione, più onesto, era Bitch. Il regista, Lou Ye, è cinese, ma il film mi è sembrato più che altro francese, sia per lo stile che per i contenuti. Innumerevoli, e in molti casi inutili, scene di sesso.

Vivan las Antipodas, di Victor Kossakovsky, è una sorta di documentario d'osservazione girato, letteralmente, ai quattro angoli del pianeta. La fotografia è straordinaria, le immagini spettacolari, la musica molto meno. È un un Godfrey Reggio senza filo conduttore e senza Philip Glass. Il film non può reggere per centocinque minuti, e nemmeno lo spettatore.

<Oh mio Dio! Ho visto George Clooney!> urla una vocina isterica nei pressi del red carpet. Per fortuna The Ides of March è più intelligente di certe fan del suo regista. Non si vede tutti i giorni un thriller politico ambientato dietro le quinte delle elezioni presidenziali. Con una sceneggiatura d'acciaio, un cast perfetto e una produzione di prima classe, era davvero difficile sbagliare il tiro. Il Clooney regista, in passato, ha fatto incazzare Charlie Kaufman; ma stavolta ha senz'altro fatto il suo lavoro.

Il cinema italiano ci riporta subito coi piedi per terra. Summer Games (Giochi d'estate) di Rolando Colla  racconta le vacanze, e la prima esperienza amorosa, di un ragazzino di famiglia modesta. Padre alcolizzato e violento, ragazza borghese ma triste, ragazzo disadattato ma in fondo di buon cuore. Gli stereotipi non mancano, le ambizioni sembrano basse. Il titolo anglofono non basterà certo il successo del film all'estero. E anche in Italia, chi se lo guarda?

Eviterò di scomodare Bergman, ma Stockholm östra (Stockholm East) di Simon Kajiser Da Silva è il genere di drammone che ci aspetta dal cinema svedese: la dolorosa storia d'amore tra una madre che ha perso la bambina e l'automobilista che l'ha investita. La sceneggiatura funziona, ma non riesce a salvare il film dall'inevitabile pesantezza del soggetto. Comunque questo regista potrebbe anche promettere bene.

Non ho letto il romanzo di Stefano Massaron, ma sospetto che Ruggine di Daniele Gaglianone avesse tutte le carte in regola per diventare un bel film. Al di là della trama e dell'ambientazione, ci sono attori in gamba, la colonna sonora di Vasco Brondi, una fotografia di prim'ordine, un bel po' di soldi – e si vedono. Ma il regista è troppo compiaciuto e innamorato delle proprie inquadrature per tagliarle prima che inizino a stracciarci le palle. I tempi morti e l'indulgenza di Gaglianone uccidono irrimediabilmente lo spettacolo.

Cut, dell'iraniano Amir Naderi, è il film più inusuale e sorprendente che abbia visto al festival. L'entusiastica presenza in sala di Enrico Ghezzi dovrebbe dirla lunga su questa produzione giapponese. La trama: un fanatico del cinema d'autore che, per ripagare il debito del fratello yakuza, si presta come punching-ball umano. Difficile da classificare, il film alterna momenti comici a scene di violenza crudissima. Ma è soprattutto un omaggio al grande cinema. Nel climax finale, il protagonista, ormai in punto di morte, accetta di farsi colpire da cento pugni; a ogni colpo, per tenersi in vita, ricorderà uno dei suoi cento film preferiti. Spoiler: il primo posto nella dolorosa classifica spetta a Citizen Kane.

Nella stessa classifica compara anche Il coltello nell'acqua, lo straordinario esordio di Roman Polanski. Cinquant'anni dividono Carnage da quel capolavoro. Ma la ferocia e il rigore del maestro rimangono le stesse, così come la prerogativa di lavorare su un set chiuso con un cast ridotto. Polanski torna a esplorare la violenza repressa nell'ipocrisia borghese, questa volta attraverso una commedia di impianto teatrale. Personalmente ho sempre preferito i suoi drammi e i suoi thriller a lavori come Che? o Cul de sac. Carnage è una piacevole eccezione. È un film perfetto, e non si vedrà di meglio a questo festival.

La sezione Orizzonti, frattanto, continua a proporre corti e mediometraggi dalla stupefacente bruttezza.

E passiamo a W.E., il nuovo film di Madonna. La forza del pregiudizio me ne ha tenuto lontano.

Saideke Balai (Warriors of the Rainbow) è un kolossal taiwanese prodotto da John Woo e diretto da tale Wei Te-Sheng. L'epica in costume di tre ore sorprende per la povertà degli effetti digitali e l'assoluta, forse involontaria, scorrettezza politica (bambini soldato, bambini impiccati, sessismo e nazionalismo anti-giapponese). A tratti è tremendamente divertente. Peccato che, contrariamente ai vecchi film di John Woo, si prenda completamente sul serio.

Il maestro è un cortometraggio diretto da Maria Grazia Cucinotta. Devo aggiungere altro?

Scialla! di Francesco Bruni è una commedia di costume incentrata sullo stereotipo dell'adolescente fancazzista. In realtà è un film simpatico, con una serie di gag riuscite. Ma quando si guarda agli snodi della trama, la faciloneria degli sceneggiatori è disarmante. Per non parlare del buonismo: nel finale, il giovane fancazzista si redime e, nelle ultime settimane scolastiche, riesce a rimediare ad alcune delle sue molte insufficienze. I professori lo vedono cambiato, cercano di promuoverlo, ma lui, in preda al nuovo senso di responsabilità, chiede e ottiene di essere bocciato comunque. Il pubblico, davanti a scene come questa, dovrebbe scardinare le sedie dal pavimento e lanciarle contro lo schermo.

Hail di Amiel Courtin-Wilson è uno dei film dei quali avrei fatto volentieri a meno.

Negli ultimi anni, con History of Violence e Eastern Promise, Cronenberg ci ha abituati troppo bene. A Dangerous Method non sarà il terzo di una coppia perfetta: il film inizia col botto, ma il rapporto largamente epistolare, tra Jung e Freud rischia di annoiare il pubblico meno interessato alla storia della psicanalisi. Un pizzico d'humour in più non avrebbe guastato; in ogni modo, il film resta il migliore sull'argomento dai tempi di John Huston.

Altro cortometreggio-fuffa, A chjana di Jonas Carpignano racconta la rivolta degli stagionali extracomunitari in Puglia. O almeno ci prova. Mistero: chi avrà pagato la scena della rivolta, con decine di comparse che distruggono auto vere?

Temevo che Cose dell'altro mondo di Francesco Patierno si sarebbe rivelato il Qualunquemente del nord-est. Quest'ultimo, per inciso, è uno dei peggiori film dell'anno. Il film di Patierno scende quasi più in basso. Per cominciare, il pasticcio linguistico. Chi pensava che Diego Abatantuono potesse interpretare un imprenditore veneto ha dimostrato un'equanime ignoranza del dialetto veneto e delle capacità attoriali di Diego Abatantuono. Veniamo alla trama: come per magia, i tanto vituperati immigrati extracomunitari scompaiono dal Veneto e dall'Italia; le fabbriche restano senza operai e le vecchie senza badanti. Che cos'è questa roba? Un film a tesi? Una predica anti-xenofobia? Prodotta da Medusa? Spoiler: in questo nordest razzista non esiste la Lega. Satira edulcorata e patina di finto impegno civile passerebbero, suppongo, in un film divertente, ma qui le gag sono barzellette di quinta elementare. Potremmo discutere più a fondo le falle della costruzione drammatica, se esistesse una costruzione drammatica. Alcuni veneti hanno protestato, ma la polemica è labile. Chi ha il diritto di sentirsi insultato, in questo caso, è il pubblico.

Alpis (Alps) di Yorgos Lanthimos è un film che mi risulta incomprensibile. Forse perché, per almeno mezz'ora della proiezione, ho dormito. Ho l'impressione di non essermi perso granché.

James Franco ci ricorda che non è necessario conoscere i più basilari principi della regia cinematografica per presentare un film a Venezia. Quanto a me, dubito che la merda delle star profumi. Sal, un film su vita e morte dell'attore Sal Mineo (Gioventù bruciata), sembrava una buona idea. Ma, Cristo, datela in mano a un regista! Uno qualsiasi, veramente. Infine, quando i titoli di testa del tuo film sono il testo di default di Final Cut (Lucida grande bianco su sfondo nero), forse dovresti lasciar perdere.

Considero Steven Soderbergh mi un regista sopravvalutato e occasionalmente pretenzioso. In Contagion, per fortuna, lascia da parte ogni velleità artistica. La trama: un'epidemia di una malattia sconosciuta inizia a decimare l'umanità. Troppi personaggi e linee narrative slegate in un film curiosamente ultraconservatore. In Contagion gli untori sono i cinesi, il cattivo è un blogger che fa controinformazione indipendente e i buoni sono, alla fin fine, il governo e le autorità ufficiali. Finale consolatorio con almeno una parentesi stucchevole.

I Manetti Bros. tornano con L'arrivo di Wang, un film di fantascienza miserevole e involontariamente comico. La povertà degli effetti speciali e dell'inguardabile alieno Wang sarebbero ampiamente scusabili se la sceneggiatura non fosse risibile. Il film cita La guerra dei mondi, ma siamo più dalle parti di Plan 9 from outer space. Attori canissimi.

Poulet aux prunes segna il ritorno di Marjane Satrapi e Vincent Parannaud (Persepolis). Questa volta non si tratta, se non in piccola parte, di un film di animazione. La favola ricca di humour nero stupisce per la qualità della messa in scena e delle invenzioni registiche, spesso ispirate al cinema classico americano. È un film delizioso, amaro, divertentissimo. E se lo mandano a casa senza qualche premio mi incazzo.

Jonathan Demme sorprende e commuove con il documentario indipendente I'm Carolyn Parker. Il regista premio Oscar, già autore di un documentario su un presidente degli Stati Uniti, imbraccia una videocamera e va a intervistare un'anziana signora di colore di New Orleans. Carolyn Parker predica come Martin Luther King e picchia come Bud Spencer. E quando l'uragano Katrina ha distrutto il suo quartiere di New Orleans, non si è rassegnata a vivere in un container. Per cinque anni Demme ha seguito la lotta di Carolyn Parker per ricostruire la sua casa e la chiesa del suo quartiere. Nel frattempo si è fatto raccontare la storia della sua vita e ha approfittato delle sue torte fatte in casa. We can be heroes.

The Invader, di Nicolas Provost, è un altro dei film sul tema sesso-immigrazione. In effetti mi sembra che colga il pretesto dell'immigrazione per parlare di figa, almeno fino a che la trama non vira stupidamente verso l'ennesima, brutta imitazione di Taxi Driver. Possono esserci buchi di sceneggiatura in un film in cui non succede niente? Purtroppo sì. Si salva la fotografia, e poco altro.

Grazie al cielo c'è Al Pacino. Wilde Salome riserva alla Salomé di Oscar Wilde lo stesso trattamento del Riccardo III di Shakespeare in Looking for Richard. Cioè un misto di messa in scena teatrale, cinematografica, diario di lavorazione e documentario. Forse è solo il carisma del regista a tenere insieme questo materiale eterogeneo, ma che importa? Pacino è uno che, subito dopo aver ritirato un premio alla carriera e letto una poesia di Wilde, si mette a mimare la mitragliatrice di Scarface davanti a un suo fan quindicenne. Come facciamo a non volergli bene?

L'artista britannico Steve McQueen presenta il suo secondo film, Shame, l'intenso ritratto di un maniaco sessuale della New York bene. La performance di Fassbender è straordinaria, il film, uno dei migliori in concorso.

Stelline:

A Dangerous Method di D. Cronenberg ★★★★
Alpis di Y. Lanthimos N.P.
Carnage di R. Polanski ★★★★★
Contagion di S. Soderbergh ★★★
Cose dell'altro mondo di F. Patierno 
Cut di A. Naderi ★★★★
Hail di A. Courtis-Wilson 
I'm Carolun Parker di J. Demme ★★★★
L'arrivo di Wang dei Manetti Bros. 
Love and Bruises di L. Ye ★★
Poulet aux prunes di M. Satrapi e V. Parannaud ★★★★
Ruggine di D. Gaglianone ★★
Saideke Balai (Warriors of the Rainbow) di W. Te-Sheng ★★
Sal di J. Franco N.P.
Scialla! di F. Bruni ★★★
Shame di S. McQueen ★★★★
Stockholm östra (Stockholm East) di S. Kajiser Da Silva ★★★
Summer Games (Giochi d'estate) di R. Colla ★★
The Ides of March di G. Clooney ★★★★
The Invader di N. Provost ★★
Wilde Salome di A. Pacino ★★★★



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