Per cominciare, i personaggi. I protagonisti della
storia del jazz sono a volte un enigma: Duke Ellington, Miles Davis, Thelonious
Monk, sembrano imperatori di mondi remoti, paesi che possiamo solo sperare, o
temere, di visitare in qualche strano sogno. Molti sono geni maledetti: Art
Tatum era quasi cieco; Chick Webb, nano e gobbo; Charlie Parker fu devastato
dalla droga e dalla morte della figlia. Nessuno di loro arrivò ai
cinquant’anni. Altri protagonisti hanno un passato tragico e una parabola
epica: Louis Armstrong, all’età di undici anni, fu arrestato perché sparava per
strada con la pistola del padre; Benny Goodman era il nono di dodici figli di
una famiglia poverissima; Billie Holiday, a tredici anni, era già costretta a
prostituirsi. Il blues incarnato. Ciascuno di loro, in seguito, avrebbe venduto
milioni di dischi e influenzato generazioni di musicisti.
In secondo luogo, la storia. Perché l’evoluzione
del jazz, a partire dalla genesi alla fine dell’ottocento, attraverso la grande
baldoria degli anni venti e le violente sperimentazioni degli anni sessanta, è la storia del novecento americano.
Spesso Ken Burns, nel corso delle dieci puntate, giustappone la musica a
immagini delle guerre mondiali, della grande depressione, del Vietnam;
raramente l’accostamento sembra gratuito, o forzato. A volte il jazz è un treno
a vapore che corre nella notte; altre, l’intermittenza nelle luci al neon di
Times Square negli anni dello swing; altre ancora è un cadavere nero appeso a
un ramo. «Jazz objectifies America»,
stabilisce Wynton Marsalis all’inizio del documentario.
In terzo luogo, la musica. A quanto pare Jazz è il documentario più lungo finora
realizzato, e per tutta la sua durata la musica è pressoché ininterrotta. C’è
tutto il tempo per sentire, almeno in parte, molte delle più importanti
incisioni nella storia del genere, a volte in performance filmate, più spesso
accompagnate da straordinarie fotografie di repertorio (animate con l’effetto a
cui Ken Burns ha dato il nome).
Ogni puntata copre, in ordine cronologico, un arco
di cinque/dieci anni. Tranne l’ultima, che va dal 1960 al 2000. Questo segna
anche il limite più evidente dell’opera: l’evoluzione del genere dalla nascita
della fusion in avanti è trattata in maniera sbrigativa o semplicemente
ignorata. Inoltre artisti del calibro di Chet Baker, Dinah Washington, Nat King
Cole, Jaco Pastorius, Chick Corea non trovano spazio nel film di Burns. Non si
può avere tutto, suppongo. Ma quello che c’è rimane un lavoro impressionante,
monumentale, a tratti commovente.
Dopo il suo arresto, il giovane Louis Armstrong
iniziò a suonare nella banda del riformatorio. Il ragazzo veniva dal famigerato
quartiere noto come “Battlefield”; il
suo insegnante, Peter Davis, non si aspettava niente da lui. In breve Armstrong
divenne il leader della banda. Quando passarono suonando per le strade del Battlefield,
tutte le puttane e i giocatori d’azzardo scesero per strada per vedere il tredicenne
Louis. Quel giorno la banda raccolse così tante monete da poter pagare nuovi
strumenti e uniformi per tutti.
Perché a scuola non mi hanno insegnato queste
cose, invece del flauto dolce?
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