domenica 4 dicembre 2011

Jazz (2000) di K. Burns ★★★★


Non so cantare né suonare. La storia della musica non mi interessa più di qualunque altro argomento. Per anni non mi ha interessato affatto. Allora cos’è che mi ha tenuto incollato, per quasi venti ore, a un documentario a puntate sul jazz?


Per cominciare, i personaggi. I protagonisti della storia del jazz sono a volte un enigma: Duke Ellington, Miles Davis, Thelonious Monk, sembrano imperatori di mondi remoti, paesi che possiamo solo sperare, o temere, di visitare in qualche strano sogno. Molti sono geni maledetti: Art Tatum era quasi cieco; Chick Webb, nano e gobbo; Charlie Parker fu devastato dalla droga e dalla morte della figlia. Nessuno di loro arrivò ai cinquant’anni. Altri protagonisti hanno un passato tragico e una parabola epica: Louis Armstrong, all’età di undici anni, fu arrestato perché sparava per strada con la pistola del padre; Benny Goodman era il nono di dodici figli di una famiglia poverissima; Billie Holiday, a tredici anni, era già costretta a prostituirsi. Il blues incarnato. Ciascuno di loro, in seguito, avrebbe venduto milioni di dischi e influenzato generazioni di musicisti.

In secondo luogo, la storia. Perché l’evoluzione del jazz, a partire dalla genesi alla fine dell’ottocento, attraverso la grande baldoria degli anni venti e le violente sperimentazioni degli anni sessanta, è la storia del novecento americano. Spesso Ken Burns, nel corso delle dieci puntate, giustappone la musica a immagini delle guerre mondiali, della grande depressione, del Vietnam; raramente l’accostamento sembra gratuito, o forzato. A volte il jazz è un treno a vapore che corre nella notte; altre, l’intermittenza nelle luci al neon di Times Square negli anni dello swing; altre ancora è un cadavere nero appeso a un ramo. «Jazz objectifies America», stabilisce Wynton Marsalis all’inizio del documentario.


In terzo luogo, la musica. A quanto pare Jazz è il documentario più lungo finora realizzato, e per tutta la sua durata la musica è pressoché ininterrotta. C’è tutto il tempo per sentire, almeno in parte, molte delle più importanti incisioni nella storia del genere, a volte in performance filmate, più spesso accompagnate da straordinarie fotografie di repertorio (animate con l’effetto a cui Ken Burns ha dato il nome).

Ogni puntata copre, in ordine cronologico, un arco di cinque/dieci anni. Tranne l’ultima, che va dal 1960 al 2000. Questo segna anche il limite più evidente dell’opera: l’evoluzione del genere dalla nascita della fusion in avanti è trattata in maniera sbrigativa o semplicemente ignorata. Inoltre artisti del calibro di Chet Baker, Dinah Washington, Nat King Cole, Jaco Pastorius, Chick Corea non trovano spazio nel film di Burns. Non si può avere tutto, suppongo. Ma quello che c’è rimane un lavoro impressionante, monumentale, a tratti commovente.


Dopo il suo arresto, il giovane Louis Armstrong iniziò a suonare nella banda del riformatorio. Il ragazzo veniva dal famigerato quartiere noto come “Battlefield”; il suo insegnante, Peter Davis, non si aspettava niente da lui. In breve Armstrong divenne il leader della banda. Quando passarono suonando per le strade del Battlefield, tutte le puttane e i giocatori d’azzardo scesero per strada per vedere il tredicenne Louis. Quel giorno la banda raccolse così tante monete da poter pagare nuovi strumenti e uniformi per tutti.

Perché a scuola non mi hanno insegnato queste cose, invece del flauto dolce?

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